La giustizia, si sa, è cieca. O almeno così ci piace immaginarla: una divinità bendata che brandisce una spada e una bilancia, sorda a tutto ciò che non siano i fatti e la legge. Ma in un’epoca in cui il confine tra apparenza e sostanza è sempre più sottile, persino la giustizia sembra essersi tolta la benda, puntando gli occhi su un nuovo elemento: i tatuaggi.
Sì, i tatuaggi, quei disegni incisi sulla pelle che, a seconda di chi li osserva, possono essere opere d’arte, espressioni di libertà o, come pare sempre più spesso nei tribunali, indizi di una presunta colpevolezza o innocenza. E allora, riflettiamo insieme su questo curioso fenomeno che accomuna Italia e Stati Uniti: il tatuaggio come prova legale.
Un’arte antica che finisce sotto processo
Iniziamo dal dire che chi scrive ha ceduto anni orsono a farsi tatuare momenti di vita… e quindi per comprendere come siamo arrivati al punto di dibattere sul significato legale di un tatuaggio, è interessante tornare alle origini di questa pratica millenaria. I tatuaggi non sono certo un’invenzione moderna, e non nascono nemmeno dai vicoli malfamati di città portuali, come molti potrebbero pensare. Le loro radici affondano in epoche e culture ben più antiche.
L’evidenza più remota ci viene offerta da Ötzi, l’Uomo del Similaun, una mummia vecchia di oltre 5.000 anni ritrovata tra le montagne d’Italia e Austria. Sulla sua pelle, gli scienziati hanno identificato ben 61 segni tatuati, probabilmente legati a pratiche terapeutiche, una sorta di agopuntura primitiva. Già allora, quindi, il tatuaggio non era solo decorazione, ma portatore di un significato pratico o spirituale.
E che dire delle civiltà polinesiane? Il termine “tatuaggio” deriva proprio dalla parola tahitiana tatau, che significa “segnare” o “imprimere”. In queste culture, i tatuaggi erano simboli di status sociale, forza, coraggio e identità tribale. Ogni segno raccontava una storia, un atto di appartenenza che si scolpiva nella pelle per sempre.
Anche nell’antico Egitto, i tatuaggi erano utilizzati come simboli religiosi e rituali, spesso legati alle donne e alla fertilità. Nel Giappone feudale, i tatuaggi avevano una doppia valenza: erano segni di punizione per i criminali ma anche elaborati capolavori artistici legati al mondo degli yakuza.
In Europa, però, il tatuaggio ha avuto una storia più travagliata. Condannati dal cristianesimo come simboli pagani, per secoli sono stati banditi, sopravvivendo solo ai margini della società, tra marinai e avventurieri. Fu solo con il ritorno degli esploratori dal Pacifico nel XVIII secolo che i tatuaggi iniziarono a riaffiorare nella cultura occidentale, pronti a trasformarsi nel fenomeno globale che conosciamo oggi.
Un tempo i tatuaggi erano terreno fertile per chi voleva ribellarsi alle convenzioni. Marinai, motociclisti e punk li sfoggiavano come trofei di una vita ai margini. Poi è arrivata l’era di Instagram, e il tatuaggio è diventato una sorta di CV estetico da esibire orgogliosamente. Oggi, però, i disegni sulla pelle si trovano a raccontare un’altra storia, quella che i giudici e gli avvocati vogliono leggere.
Negli Stati Uniti, ad esempio, ci sono stati casi in cui i tatuaggi sono stati usati come prove incriminanti. Prendiamo il celebre caso di Jeffrey Chapman in Kansas: l’uomo era accusato di omicidio, e il suo tatuaggio sul collo – la scritta “Murder” – è stato considerato un dettaglio troppo eloquente per essere ignorato. Il problema? L’impatto potenzialmente devastante che quel tatuaggio avrebbe avuto sulla giuria. Non importa che Chapman fosse effettivamente colpevole: il tatuaggio parlava da sé, e il rischio era che parlasse troppo.
In Italia, pur senza il sensazionalismo dei processi americani, il fenomeno non è meno interessante. Durante i procedimenti giudiziari, i tatuaggi possono essere citati per corroborare accuse o difese, magari come segni di affiliazione a gruppi criminali. Se un imputato sfoggia un bel tribal che richiama simbologie mafiose, è difficile per il giudice non sollevare un sopracciglio. Che poi magari quel tatuaggio è stato fatto in un impeto giovanile durante una vacanza a Rimini… ma tant’è.
A complicare ulteriormente la questione c’è il fatto che i tatuaggi, nel tribunale, vengono spesso interpretati come una finestra sulla psiche dell’imputato. Un tatuaggio di un teschio? Probabile che sia una persona aggressiva. Un disegno di una farfalla? Sarà un animo libero, forse un po’ instabile. Un personaggio Disney? Decisamente colpevole, ma di cattivo gusto.
Il problema, ovviamente, è che queste interpretazioni sono a dir poco arbitrarie. Il tatuaggio è un linguaggio visivo, certo, ma un linguaggio che richiede un contesto per essere compreso. E quel contesto spesso non trova spazio in un’aula di tribunale. Come spiegheremo, ad esempio, che il nostro dragone giapponese non simboleggia un desiderio di vendetta ma un amore per l’estetica orientale? E chi ci assicura che il giudice non abbia avuto un pessimo incontro con un drago tatuato in passato? ….
Ciò che rende questa tendenza così insidiosa è il modo in cui rischia di compromettere la neutralità del processo legale. Se un tatuaggio viene visto come una sorta di confessione visiva, si rischia di giudicare l’imputato non per ciò che ha fatto, ma per ciò che appare. In un mondo dove già il pregiudizio dilaga, è davvero questo il sentiero che vogliamo percorrere?
Eppure, c’è anche un lato ironico in tutto questo. Perché, se i tatuaggi possono incriminare, allora possono anche assolvere. Come? Basta scegliere con attenzione. Perché non farsi tatuare “Innocente” a caratteri cubitali sul braccio? O un bel bilancino della giustizia sopra il cuore? Chissà, magari funzionerebbe. Certo, il rischio è che la giuria non colga l’ironia e finisca per considerare il tatuaggio come un tentativo di manipolazione. Un bel paradosso, no?
Alla fine, questa curiosa evoluzione del tatuaggio ci porta a una domanda che avrebbe fatto sorridere persino Amleto: Tatuarsi o non tatuarsi?
In un mondo dove persino la giustizia scruta ogni centimetro della pelle, forse la vera ribellione è restare un foglio bianco. Ma, come sempre, anche questa è una scelta che porta con sé i suoi rischi.
Dopotutto, chi può fidarsi di qualcuno che non ha nemmeno un piccolo tatuaggio?
Non nasconde forse qualcosa? ….
Ig – @fairness_mag