Olocausto – Auschwitz – Deportazione
Tre parole, una sola immagine
Sono passati quasi cento anni da quel tragico periodo, eppure ci sono parole che continuano a farci venire la pelle d’oca e che speriamo non smettano mai di ricordarci che Non Dobbiamo Dimenticare.
Ormai le colleghiamo automaticamente a quel concetto nazista di epurazione dagli ebrei che, anche se prese singolarmente, ci fanno subito capire di cosa stiamo parlando.
Quando le parole hanno questo potere, si parla di metonimia, una figura retorica secondo cui un termine viene sostituito con un altro che ha con esso un rapporto di contiguità.
Ad esempio, il nome Auschwitz può rappresentare non solo il campo di concentramento, ma anche l’insieme degli orrori e delle sofferenze dell’Olocausto.
Anche la parola Olocausto, in realtà, ha una storia molto antica che, solo in un secondo momento, si è intrecciata con quella degli anni tra il 1939 e il 1945, gli anni più bui del terrore nazista.
Il termine Olocausto, in effetti, deriva dal greco antico holókaustos, formato da hólos (tutto) e kaustós (bruciato), e indicava un sacrificio religioso in cui l’offerta veniva completamente bruciata.
Inoltre, nella traduzione greca della Bibbia ebraica- detta Septuaginta– la parola holókaustos traduce il termine ebraico ‘olah, che significa ciò che ascende, o sacrificio bruciato. Quindi, questo indica che il sacrificio era caratterizzato dalla combustione totale dell’animale offerto, il cui fumo saliva verso il cielo come offerta a Dio.

Nel contesto moderno, invece, il termine Olocausto è utilizzato per descrivere il genocidio degli ebrei europei durante la Seconda guerra mondiale.
Tuttavia, l’uso di questo termine ha suscitato diversi dibattiti a causa delle sue connotazioni religiose e sacrificali: alcuni studiosi ritengono infatti che possa implicare una sorta di sacrificio volontario o necessario, distorcendo la realtà storica dello sterminio forzato e brutale perpetrato dai nazisti, che nulla aveva a che vedere con la religione e le offerte sacrificali.
Più tardi, per evitare tali implicazioni, venne allora adottato il termine Shoah che in ebraico significa catastrofe o distruzione.
In origine, questo termine apparve nella Bibbia ebraica, in particolare nei libri di Giobbe e Isaia, per descrivere eventi di grande devastazione.
Perciò, la parola Shoah – più neutra e priva delle connotazioni religiose associate a Olocausto – risulta un termine più appropriato per descrivere l’annientamento sistematico degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale.
L’adozione di Shoah al posto di Olocausto riflette quindi una sensibilità crescente verso l’accuratezza storica e la necessità di utilizzare termini che non possano essere fraintesi o interpretati in modo inappropriato, soprattutto per descrivere scene come quelle dovute all’orrore nazista.
Questo cambiamento terminologico evidenzia ancora una volta l’importanza del linguaggio nella rappresentazione e nella memoria degli eventi storici, sottolineando come le parole scelte possano influenzare la comprensione e la percezione di tali eventi.

In un periodo in cui ancora c’è chi vorrebbe negare l’orrore perpetrato a discapito di vittime innocenti, la decisione di sostituire un termine specifico (Olocausto) con un altro più generale (Shoah), sottolinea la necessità di focalizzare l’attenzione sulla NON religiosità, sulla NON volontarietà (da parte delle vittime, ovviamente) e sulla NON necessarietà di tali sacrifici umani.
Sebbene sia Olocausto sia Shoah siano entrambi utilizzati per riferirsi al genocidio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, ora che conosciamo bene la differenza delle due terminologie, possiamo capire perché il nome Shoah sia preferito in molti contesti per la sua neutralità e precisione, anche se ormai sono ben radicate in noi le immagini associate alla parola Olocausto.
Sì, sono passati quasi cento anni da quel tragico periodo. Eppure, ci sono parole che speriamo non smettano mai di ricordarci che Non Dobbiamo Dimenticare.